Il sushi beffardo



Non so voi, ma io sono uno di quelli che in ufficio si riduceva sempre a mangiare in squallidi locali in pausa pranzo. Esperienze spesso paranormali, scandalose, disgustose. Per chi se ne intende, siamo sul livello di Hell’s Kitchen, ma ad un girone Dantesco ben peggiore.

Diciamo che chi vi scrive è uno “schiscettaro” convertito.

Prima dell’illuminazione, come vi stavo raccontando, ero solito avere disavventure alimentari insieme ai miei colleghi pressoché ogni giorno.

Disavventure credo comuni a quasi tutti noi, se ben ci pensiamo. Chi di noi non ha avuto a che fare con camerieri sobri e moderati come Vittorio Sgarbi in qualche talk show? Oppure piatti talmente orribili da essere buttati con sdegno persino da un naufrago?

Eppure, quei pasti mi sembravano l’unica soluzione. Certo, io come molti di voi mi sono imbattuto in colleghi che si portavano il pranzo da casa. Gente felice, sana, che apparentemente digeriva tutto in 20 minuti e che alle 3 lavorava per davvero, invece di soccombere sulla tastiera del computer con i demoni nello stomaco. Eppure…eppure non abbiamo mai avuto la forza di cambiare.

E allora ho pensato che, se le ricette sul blog non dovessero bastare, forse scrivere nero su bianco le mie disavventure potrebbe farvi vedere le cose da un altro punto di visto e forse, dico forse, convincerci che, alla fine della fiera, Schiscetta is the way.

Oggi cominciamo con il Sushi.

Anzi. Più precisamente con il “Sushi All you can eat”. Personalmente ritengo questa invenzione paragonabile al buco dell’ozono, ma forse tendo ad essere un filino esagerato. Detto questo, mi attengo ai fatti e inizio il racconto.

Prendete un torrido martedì di agosto a Torino, aggiungete il classico collega con molta fame e con la passione per il Giappone, mescolate il tutto e avrete il vostro pranzo da incubo.

Si esce dall’ufficio, piacevolmente fresco, per arrivare in strada e sciogliersi. Poi si va in macchina, già rimpiangendo il parcheggio che stiamo lasciando e che mai più ritroveremo e si inizia a guidare come Ryan Gosling in Drive, perché il tempo a disposizione è di 60 minuti e il capo non tollera ritardi. “Va beh, tanto il sushi è fresco, non c’è bisogno di cuocerlo, si fa in fretta”. Questa è la scusa pronunciata più volte mentre si cerca parcheggio.

Una volta lasciata la macchina in seconda fila (davvero pensavate avrei trovato parcheggio?) mi dirigo verso il ristorante. È a quel punto che, guardando l’insegna, mi sorge il terribile dubbio che quel locale una settimana prima fosse un ristorante cinese. Il dubbio viene subito fugato quando sento la cameriera parlare chiaramente in mandarino (ho studiato qualcosa all’Università).

La voglia di uscire e nutrirmi di foglie cadute dagli alberi è quasi irrefrenabile, ma ormai non si torna indietro. Nemmeno gli odori malsani che si propagano dal bancone del pesce fermano i miei colleghi. La fattura “all you can eat” li ha colpiti e io, pavido, non posso che seguirli.

Mi siedo al tavolo come un condannato a morte, spezzo le bacchette, constato lo strato di unto presente sul bicchiere, guardo gli altri avventori e decido di alzarmi e dirigermi verso il buffet.

Lì mi aspettano gomitate, ancate, scorrettezze di qualsiasi tipo pur di aggiudicarsi l’ultimo raviolo.

Torno al mio posto con il piatto colmo di riso cantonese. Cosa può esserci di malsano in un riso alla cantonese? Nulla. A parte il barile di olio di palma in cui è stato cotto, ovvio.

Al quarto boccone ho già le visioni. I miei collegi hanno ormai le fattezze di samurai, il tempo rallenta, inizio a sudare e persino l’aria mi sembra unta.

Risorgo momentaneamente dal torpore e con l’ultima goccia di amor proprio che mi rimane dico “basta, io non la finisco questa sbobba”.

Ed ecco che il collega filo-nipponico alza lo sguardo e, indignato, mi dice “sei matto? Questo è “all you can eat”, se avanzi qualcosa questi si incazzano!”.

Terrorizzato, mi giro e guardo il cuoco che proprio in quel momento sta maneggiando due enormi coltelli.

Ora, forse era il cibo ad avermi dato alla testa, ma non posso fare a meno di pensare a quel film con Bruce Lee in cui i cuochi del ristorante in cui lavorava cercano di fargli la pelle e - inspiegabilmente - mi convinco che se mai dovessi avanzare qualcosa, verrei aggredito da tutto lo staff. Non essendo io Bruce Lee, invece di battagliare gagliardamente, ritorno mesto sul mio piatto e a forza finisco il riso.

Ovviamente le bacchette ho smesso di usarle già da 20 minuti.

Mentre aspetto che i miei colleghi finiscano i loro sashimi ostentando una faccia felice e soddisfatta, mi rendo conto che dovrò buttare i miei vestiti, ormai irrimediabilmente impregnati di fritto.

Ma la parte più dura deve ancora arrivare. Dopo essermi eroicamente rifiutato di prendere il caffè (“ma è incluso nel menù!”), mi alzo con slancio e guido la comitiva verso la cassa. Lì mi aspettano proprietaria e cameriera che iniziano a trafficare con comande e scontrini, digitando tasti ad una velocità non percepibile dall’occhio umano. Dopo dieci minuti non sono ancora riuscito a farmi dire quanto devo pagare. Infine, la cameriera pare essere riuscita a risolvere l’ostico algoritmo contenuto nel mio ordine. Il verdetto è di 12 euro. Per un piatto di riso cantonese. Avanzato, tra l’altro.

Il resto della storia la potete immaginare.

Tirata di orecchie dal capo, vestiti da buttare, macchina rigata da qualcuno che non ha apprezzato il mio parcheggio in seconda fila, portafogli svuotato e apparato digerente compromesso irrimediabilmente.

A questo punto, amici miei, vi chiedo: invece di questa orripilante esperienza, non sarebbe stato meglio portarsi questo da casa? Sandwich salmone e avocado!

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